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È l’estate del 1989 e per le strade di Bedford Stuyvesant l’eccitazione è palpabile. Centinaia di giovani marciano urlando slogan e issando cartelli con immagini di leader del movimento nero, personalità afroamericane e scritte con i nomi dei luoghi della rivolta nera. Un giovane nero con un cappello da basket, a capo di quella moltitudine nera, rappa di combattere lo status quo per ridare tutto il potere al popolo. Pochi momenti nella storia della musica sono stati così dirompenti, aggressivi, galvanizzanti e, al tempo stesso, scioccanti per l’America bianca. Chuck D, leader della formazione dei Public Enemy rappava, Elvis per molti fu un eroe / Ma non ha mai significato un cazzo per me /Era un fottuto razzista quel bastardo / Chiaro ed esplicito / Affanculo sia lui che John Wayne / Sono nero ed orgoglioso / Sono pronto, eccitato, di più elettrizzato / La maggior parte dei miei eroi non appaiono sui francobolli, attaccando frontalmente l’America, usando la musica come arma di resistenza. I Public Enemy, i radicali della cultura, attaccavano le macchine per la creazione di miti con il chiaro obiettivo di conquistare i media con il proprio messaggio.

Fight the Power, pubblicato nel terzo album dei Public Enemy Fear of a Black Planet, gruppo che il 18 aprile prossimo sarà ‘indotto’ nel Rock n Roll Hall Of Fame insieme ad altre personalità afro americane, quali lo stesso Spike Lee e Harry bellafonte, uno dei pezzi simbolo nella colonna sonora della ribellione giovanile, una canzone che avrà sempre un posto di rilievo nell’immaginario popolare a livello internazionale.  Proprio come Fa la Cosa giusta, il film di Spike Lee al quale è indissolubilmente legata, Fight the Power fu scritta e realizzata in un periodo di forti tensioni razziali, e cattura alla perfezione l’aspetto sia sociale, sia psicologico del conflitto in atto. Esplicitamente politica, Fight the Power era aggressiva così come il rock era stato in altre epoche e aveva quel tipo di irriverenza tale da far inserire il nome del gruppo nelle liste dell’FBI. Fight The Power non era solo un atto di protesta, bensì un chiaro richiamo all’azione che sembrava sintetizzare al meglio l’ideologia e la rivoluzione lirica e musicale del gruppo. Quel sound funky contagioso, il suo esplicito richiamo alla protesta di strada, all’esempio di lotta dei leader del movimento nero e le critiche senza compromessi all’establishment politico erano un richiamo irresistibile per tutte le minoranze etniche e non solo per loro.

Alla fine degli anni Ottanta la situazione delle comunità di colore era davvero preoccupante; l’accoppiata Ronald Reagan-George Bush Sr aveva smantellato buona parte dei programmi sociali scaricandoli come inutile assistenzialismo, facendo affondare ulteriormente nella povertà aree già duramente colpite dalla piaga della droga e della violenza. Il crack stava devastando i ghetti urbani. L’Aids imperversava nella nazione. I leader neri, incluso Jesse Jackson, tentarono di cavalcare il problema razziale per ottenere visibilità. La comunità artistica, in assetto da guerra sin dai giorni della presidenza reaganiana, inventò forme di critica e resistenza dure, esplicite e provocatorie.

I Public Enemy, per esempio, in Rebel Without a Pause sostengono JoAnne Chesimard aka Assata Shakur, inserita nel 10 Most Wanted List dell’FBI – Recorded and ordered – supporter of Chesimard – , in  Bring the Noise invece danno il loro appoggio al discusso leader della Nation of Islam, Louis Farrakhan. Nonostante il contenuto duro, provocatorio e, per questo, oggetto di critiche spietate, quelle canzoni erano popolarissime. Sebbene Farrakhan e altre figure del movimento afroamericano fossero aspramente criticati nella sfera pubblica, Chuck D inseriva le loro idee nelle sue canzoni esplicitando come l’esser nero automaticamente rendesse qualsiasi individuo un nemico pubblico.  L’attitudine e l’immagine militante del gruppo portarono molti, dai giornalisti ai membri delle comunità e di organizzazioni nere, a considerare i Public Enemy come nuovi possibili leader del movimento di liberazione nero.

Spike Lee vide in Chuck D uno spirito affine, e lo considera ancora oggi uno degli artisti con la più alta coscienza politica e sociale della mia generazione.  Durante la produzione di Fa la Cosa Giusta mi venne un’idea per una canzone, e sapevo che la persona giusta a cui rivolgermi era Chuck D. Il primo demo che fecero lo rimandai indietro perché non mi soddisfaceva del tutto. Poi Chuck se ne venne fuori con Fight The Power… Il film di Spike Lee denunciava le tensioni razziali che caratterizzavano la New York di fine anni Ottanta così come Fight The Power criticava il sistema d’oppressione che aveva marginalizzato per oltre 400 anni la popolazione di colore.

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Fu su questo sfondo che Spike Lee girò il video promozionale per Fight The Power. La canzone era un’arringa contro la società americana, i media, il capitalismo e il fallimento dell’integrazione che aveva avuto come unico risultato quello di esacerbare il razzismo. Il concetto del video era una ricostruzione della marcia su Washington del 1963, culminata nel celebre discorso I have a Dream di Martin Luther King, ma questa volta con i Public Enemy in primo piano. La canzone, il clima che si respirava all’epoca delle riprese, le celebrità che vi parteciparono e il simbolismo evocato dal video galvanizzarono l’attenzione della popolazione nera di New York, che accorse in massa per partecipare alle riprese. Prima sulle emittenti urbane passarono gli spot promozionali dell’evento, quindi il giorno prefissato per il corteo furono distribuite ai giovani presenti le magliette “Fight The Power” insieme ai cartelli con le immagini di Angela Davis, Jesse Jackson, Paul Roberston, Frederick Douglass, Medgar Evers, Thurgood Marshall, Marcus Garvey e Mohammad Alì, con il logo dei Public Enemy e con i nomi dei luoghi simbolo delle lotte e delle rivolte. Poi il corteo sfilò per oltre un chilometro da Eastern Parkway fino al quartiere dove era stata girata la pellicola; qui il gruppo eseguì il pezzo su un palco caratterizzato dai colori New Afrikan rosso, nero e verde e sormontato da un’enorme foto di Malcolm X mentre la folla ballava e faceva smorfie a uso e consumo delle cineprese. Fu al tempo stesso una dimostrazione di strada, una marcia dell’orgoglio nero e un concerto rap, come se la National Black Political Assembly del 1972 si fosse trasfigurata in un block party di Brooklyn. Lee inserì in apertura del videoclip le immagini storiche della Marcia su Washington del 1963, alle quali seguiva l’entrata in scena di Chuck D, Giovane America nera, strapperemo ciò di cui abbiamo bisogno, non finirà come con le pagliacciate del 1963. Poi partiva il pezzo mentre Chuck proclamava: 1989! Il numero di un’altra estate, fissando per sempre quel momento nella storia. Era solo un cortometraggio di sette minuti ideato per promuovere un disco, un gruppo, un marchio, eppure quel videoclip parve cementare la leadership culturale dei Public Enemy. Per il video di Fight The Power Lee gettò Chuck D nelle strade accanto alle immagini dei grandi eroi del potere nero, come un nuovo simbolo black. Però Chuck non era tanto disposto a essere considerato il Malcolm X o il Paul Roberston della sua generazione. Lui voleva produrre arte rivoluzionaria, non guidare le masse. Peccato che dopo quel disco non stesse più a lui decidere. I Public Enemy erano passati, come afferma Bill Stephney, da gruppo rap che suona al Latin Quarters con Biz e Shan, Run e Whodini a salvatori della comunità nera.