Intervista a Patti Astor, luglio 2012
New York, East Village. Alla fine degli anni settanta l’area non era certo il quartiere alla moda che fa parte della geografia urbana della New York contemporanea. La città stessa stava attraversando un momento di grave crisi sociale dettata dal collasso economico delle finanze cittadine e dal taglio progressivo dei programmi sociali. Anche Manhattan subì le conseguenze di quella ristrutturazione e ampi settori del suo territorio ne vennero profondamente toccati. L’East Village si caratterizzava come un susseguirsi di palazzi popolari che si alternavano a edifici abbandonati e la cui popolazione media era costituita da senzatetto, tossici e un concentrato di giovani artisti, attratti dagli affitti bassissimi. Patti Astor, attrice e sceneggiatrice cinematografica, protagonista di questa intervista, e una di quei giovani che approdarono nella scena downtown alla ricerca di un’identità e di ambienti artistici e movimenti culturali in cui potersi esprimere. Patti Astor passò indenne attraverso questa scena underground vivendo da protagonista le fasi più creative della vita culturale di New York. Frequentando il CBGB’s, dal 1976 al 1978, vide nascere la prima scena punk rock, da qui passo al Mudd Club, diventando molto nota nella scena new wave recitando in diverse produzioni underground, per poi fondare la Fun Gallery e diventare una delle protagoniste dell’emergente fenomeno del graffiti writing. L’interpretazione di una reporter downtown nel film Wild Style ne farà una vera e propria icona, la rappresentante di quell’incredibile fase della vita artistica e musicale di New York.
Com’è iniziata la tua storia hip hop?
Nel 1980, ho recitato in Underground USA diretto da Eric Mitchell, una versione punk rock di Sunset Boulevard. Quel film ritraeva la scena artistica creatasi attorno al Mudd Club proprio come Wild Style racconto, qualche anno più tardi, l’energia che animava le prime feste hip hop nel Bronx. La mia storia d’amore con il graffiti writing inizio quando incontrai Fab Five Freddy a un party in un loft di un amico a downtown. Fab aveva portato Futura e Kyle Jenkins a vedere quel film. Egli aveva gia una buona conoscenza della scena downtown essendo un assiduo frequentatore delle feste e per via di Blondie e del singolo Rapture. Quando Fab mi vide disse che ero la sua star cinematografica preferita e che ero down by law. Io gli risposi che lui doveva essere di sicuro il mio nuovo miglior amico. E andò effettivamente così.
La scena downtown incontra quella uptown…
Uno dei primi momenti in cui la scena downtown e quella uptown dimostrarono di poter essere in sintonia fu durante le riprese del film Snakewoman, una produzione low budget che girammo interamente a Central Park, fianco a fianco a quei giovani che suonavano con i loro sound system all’aperto. Punk rocker e b-boy avevano un’estetica similare. I punk non avevano soldi, si arrangiavano al meglio con cio che avevano, facendo solo cio che volevano. Allo stesso modo, i b-boy si agganciavano al sistema elettrico illegalmente per fare le loro feste, senza nessuna autorizzazione. Se a downtown cercavamo di creare un’identità punk rock, uptown ne cercavano una hip hop. La gente che ho incontrato al CBGB’s ha poi creato il Mudd Club. Ma in quel periodo gruppi come Blondie e i Talking Heads erano già diventati popolari e per noi era come se the music was over e cercassimo qualcosa di nuovo. Iniziammo a girare film underground in Super 8, li trasferivamo su video e li proiettavamo nel club. Poi Jim Jarmusch divento famoso con il suo film Permanent Vacation (1980) e sembrava che la vena creativa si stesse esaurendo quando all’improvviso emerse il fenomeno del graffiti writing. Il momento simbolico e di passaggio fu quando il proprietario del Mudd Club aprì uno spazio espositivo al quarto piano del medesimo edificio. “Beyond Words” fu la mostra che inauguro il locale e fece interagire quei due mondi per la prima volta. Afrika Bambaataa era il DJ e in esposizione c’erano opere di Keith Haring, Fab Five Freddy, Jean-Michel Basquiat, Futura e altri writer. Fu la prima volta in cui vidi un giovane adolescente correre con un sacchetto pieno di bombolette. Vivendo nell’East Village non eravamo certo immersi nella subway culture, anzi prendevamo la metropolitana di rado, ci muovevamo sempre a piedi. Iniziai ad andare con Fab Five Freddy uptown e lui mi presento Lee Qinonˇ es e Futura. I tre successivamente presero insieme uno studio sull’Avenue D e iniziai a trascorrere tutto il mio tempo con loro. Quei ragazzi compresero immediatamente che uscire con me significava l’ingresso immediato nell’area vip di ogni club, quindi mi adoravano. Ero molto popolare all’epoca. Nonostante ciò, vivevo in un appartamento da 65 dollari al mese proprio di fronte al Men’s Shelter, un edificio occupato da senza tetto. Tutti gli artisti vivevano su quella strada: era chiamata la strada delle star. All’epoca nel quartiere vivevano solo artisti e spacciatori d’eroina, era come una città nella città.
Come è nata l’idea di aprire una galleria d’arte?
L’idea della galleria nacque per caso. Futura mi voleva regalare un quadro e gli risposi che un pezzo su un muro del mio appartamento sarebbe stato un dono piu gradito. Suggerì poi di fare un barbecue e una festa per mostrarlo a tutti. Futura dipinse il muro mentre Kenny Scharf, che all’epoca si faceva chiamare Van Chrome, si occupò di personalizzare i sanitari e i termosifoni e attacco anche piccole figure sul frigorifero e sulle stoviglie. Vennero Keith Haring, Fab Five Freddy, Dondi e un sacco di altre persone. A un certo punto Keith ci chiamo tutti alla finestra e vedemmo uscire da una limousine Diego Cortez insieme a Jeffrey Deitch, uno dei piu importanti commercianti d’arte al mondo. Da quel momento in poi il mio appartamento diventò una sorta di festa continua con il mondo dell’arte di strada che incontrava quello piu esclusivo e istituzionale. In quel periodo, il mio amico Bill Stelling mi disse che aveva un piccolo spazio dove poter aprire una galleria, mi chiese anche se conoscessi artisti per iniziare questo progetto… La location originale era sulla Decima strada tra la Seconda e la Terza Avenue. Era il 1981. Mettemmo in giro la voce dell’apertura della galleria e della nostra ricerca di artisti da esporre. Il primo a presentarsi fu il mio ex marito, Steven Kramer, incredibile musicista e artista. Presentammo circa venti opere al costo di cinquanta dollari l’una. Le vendemmo tutte in un solo giorno! Ora avevamo una galleria e volevamo assolutamente differenziarci da ciò che ci circondava lasciando a quei giovani tutta la libertà artistica, inclusa la possibilità di scegliere il nome della galleria. Il secondo artista a esporre fu Kenny Scharf e fu proprio lui a decidere il nome: Fun Gallery. Poi fu il turno di Fab e con lui iniziarono ad arrivare le limousine con collezionisti del calibro di Bruno Bischofberger. Succedeva tutto troppo velocemente e all’epoca non avevamo idea di cosa stessimo realizzando.
Quali sono le ragioni del successo trasversale della Fun Gallery?
La ragione per cui la Fun Gallery ebbe un tale successo, ovvero il perché si creo quel mix unico di gente che si radunava ai miei party, e che all’epoca io ero già una star della scena downtown, ero sulla copertina di tutte le riviste underground per i miei film. Ero anche conosciuta come la regina delle feste. Questa e la ragione per cui gente come Bruno e altri collezionisti vennero alla galleria, altrimenti non avrebbero mai saputo di quel fenomeno ne avrebbero frequentato posti con tutta quella gente di colore. Per un opening alla Fun Gallery erano capaci di presentarsi anche un migliaio di persone. Così iniziarono a girare parecchi soldi, ma il comportamento di questi collezionisti era molto aggressivo, erano capaci di entrare nella galleria e comprare cinque o sei dipinti e noi quelle scenette le chiamavamo corporate selection. E diciamo che gli artisti, benché giovani, non erano certo dei santerelli e cercarono di farsi conoscere e di sfruttare la situazione. C’era interesse per quegli artisti underground le cui opere erano belle, innovative e fresche. Durante lo show di Futura, una donna che chiamerò il barracuda del mondo dell’arte, mi si avvicinò e mi disse: “Non preoccuparti non sarai sola ancora per molto”. E aveva ragione. Un altro motivo del successo della Fun Gallery deriva dal fatto che non aprimmo come galleria di street art e non esponemmo esclusivamente street art. Volevamo creare uno spazio dove ogni artista potesse esprimersi. Ogni mostra era un one man show.
A tanti anni di distanza che riflessioni puoi fare su quelle esperienze?
C’erano decine di ragazzini con i loro blackbook che affollavano la galleria giorno e notte. Il sistema educativo li aveva abbandonati e loro lo sapevano benissimo. Cercavano un’identità propria in quei disegni e si piazzavano li in attesa costante dei loro idoli: Dondi, Futura o Fab Five Freddy. Quando si presentavano, lì subissavano di domande. Era incredibile vedere quanta sete di conoscenza li pervadesse. Per me, poterli aiutare nella loro passione e sostenerli nel percorso di creazione di un’identità, fu come una missione. I collezionisti erano uomini d’affari e non conoscevano nemmeno il nome dei writer, non ne distinguevano uno dall’altro. Futura e l’esempio negativo più eclatante. Era l’artista migliore della mia galleria e anche economicamente non se la stava cavando male. Durante il suo primo show alla Fun Gallery, Barbara Gladstone gli comprò un quadro per seicento dollari. Tony Shafrazi ce lo rubo. Aveva una galleria meravigliosa e lo illuse di poterlo far diventare una star. Quel che successe invece fu che i suoi quadri furono accatastati l’uno sull’altro in modo orribile. A causa dell’avidità di Tony la carriera di un promettente artista fu rovinata per parecchi anni. Sono felice e per nulla sorpresa di sapere che se la sta cavando alla grande ora. Il talento emerge sempre. Ciò che successe fu che anno dopo anno iniziarono ad arrivare sempre piu uomini d’affari e personalità trasformando il tutto in una mera questione di denaro. La Fun Gallery duro quattro anni, dal 1981 al 1985, ed era nata per puro caso, non avevo mai immaginato di gestire una galleria d’arte.